Tuttavia Fitzgerald avrebbe in seguito argomentato stridentemente contro il movimento white-supremacist del “nordicismo”, che sosteneva che i bianchi in Europa e in America venivano “sostituiti” dalla “diffusione” dei non bianchi e che i bianchi avrebbero presto semplicemente cessato di esistere (un’idea che riecheggia oggi nei meme sul “genocidio bianco”). Quando il narratore di Gatsby descrive le infami sfuriate white-supremacist di Tom Buchanan come “appassionate sciocchezze”, sta forse facendo eco alle opinioni di Fitzgerald stesso. L’ideologia del “nordicismo” appare in Gatbsy solo come ulteriore prova dell’irrimediabile sgradevolezza di Buchanan, dato che Buchanan – il personaggio più apertamente razzista del libro – è chiaramente inteso come antipatico.
L’uso che Fitzgerald fa dell’immaginario jazz, quindi, è tanto all’avanguardia quanto conservatore. Ha abbracciato la nuova musica; ha lottato di più per abbracciare i suoi praticanti e progenitori. Era disposto a imparare. Eppure, nell’epoca in cui il jazz era al suo discutibile apice di visibilità pubblica, non era ancora in grado di vedere i neri nello stesso modo in cui vedeva i bianchi americani e gli europei.
L’empatia è in parte ciò che il jazz si proponeva di creare, sconvolgendo all’inizio le tradizioni e i tradizionalisti, per poi attirarli con la sua bellezza quasi surreale e fiabesca. Il jazz ha tentato di dissolvere le linee sociali tra razza, classe e appartenenza politica, come nel famoso racconto di James Baldwin, “Sonny’s Blues”, in cui la nuova musica alla fine riunisce due fratelli in lotta da tempo grazie alla pura emotività delle melodie che il titolare Sonny suona per il fratello. Il jazz era, in un certo senso, una forza equalizzante sia nell’opera di Fitzgerald che nel mondo in generale.
Il Grande Gatsby, quindi, era un chiaro prodotto del suo tempo, abbracciando la nuova musica ma anche cadendo preda delle caricature che erano diventate associate ad essa. Tuttavia, usava il jazz come sfondo gentile ma potente per una storia di amore fallito che dura ancora oggi, e in questo modo, insieme al suo uso del termine “età del jazz”, Fitzgerald ha contribuito a cementare l’idea che il jazz abbia definito gli anni venti. Con tutti i suoi difetti, anche Fitzgerald era un ballerino su quel grande palcoscenico dell’epoca, con sassofoni, pianoforti e tutto il resto che risuonava intorno a lui.