Essendo uscito dall’armadio, o dal casinò, non molto tempo fa, come un idolatra senza riserve di Frank Sinatra, mi sono avvicinato al secondo volume della biografia del cantante di James Kaplan (“Sinatra: The Chairman”) con quella che le nostre madri e i nostri padri critici avrebbero chiamato un’immensa trepidazione, dato che il libro avrebbe dovuto trattare non solo i migliori dischi del grande uomo, ma anche il suo disordinato intreccio con la mafia e i suoi tristi e ottusi ultimi anni. (L’ho visto esibirsi una volta, verso la fine, al Madison Square Garden, ed è stato come vedere il morto El Cid montato sul suo cavallo per guidare l’esercito spagnolo: nobile ma innegabilmente rigido.)
Il libro di Kaplan risulta essere, per continuare nel linguaggio dei vecchi recensori, enormemente leggibile, estremamente divertente, un page-turner, e tutto il resto. Ma è anche interessante come un bell’esempio di una cosa sorprendentemente nuova: la biografia seria e persino accademica di una figura pop molto pettegola, dove la vecchia biografia da foglio scandalistico alla Kitty Kelley viene trasformata in uno studio adeguatamente documentato e ricco di note che tuttavia si basa, o almeno non esclude, le parti sensazionali.
I due volumi di Peter Guralnick su Elvis Presley furono il modello pionieristico del genere. Progettato in qualche piccola parte per disinnescare la brutta, sprezzante, ma spesso perspicace, biografia del Re di Albert Goldman, Guralnick ha lavorato attraverso i dettagli della vita di Elvis con una pazienza più studiosa di quella che Leon Edel ha dedicato a Henry James (la lunga nota finale di Guralnick che discute su chi ha effettivamente lavorato al tornio sulla prima registrazione di Elvis, Sam Phillips o il suo assistente, è uno storditore). Guralnick è un fan, e questo era sia buono – amava profondamente Elvis, non solo le sessioni Sun, che tutti ammirano, ma anche il materiale più ‘problematico’ – sia cattivo, perché, nel suo sincero desiderio di mostrare Elvis il cantante americano, ha piuttosto sminuito Elvis l’icona americana, che (e Goldman non aveva torto in questo) ha messo in scena il ruolo di re autoprodotto in una sorta di burlesque istintivo di tutti gli antichi stereotipi di maestà, dall’amante ufficiale al “possesso” esotico delle Hawaii. La cosa strana è che, nel libro di Guralnick, i pettegolezzi più sensazionali di Goldman erano, nel complesso, tranquillamente confermati – Elvis era un drogato con preoccupazioni occulte, che morì davvero di overdose, e fu portato in tour fino alla morte dal “Colonnello” Tom Parker, in parte perché Parker era davvero un immigrato illegale, dall’Olanda, che non poteva ottenere un passaporto e aveva paura di portare Elvis all’estero – mentre veniva contemporaneamente deprecato come inessenziale.
La brutta versione di Elvis, per dirla senza mezzi termini, era quella di un idiota con un problema di droga; Guralnick ha dimostrato che aveva davvero un problema di droga, ma non era affatto stupido, con profondi desideri spirituali che, attraverso una cattiva gestione e la sfortuna, sono stati deviati in quei tour massacranti e nell’abuso di sostanze. La brutta versione di Sinatra è quella di un cattivo ragazzo con una grande voce. Kaplan mostra che le cose da cattivo ragazzo erano, in verità, piuttosto brutte, tanto quanto si era immaginato e molto peggio di quanto si sperasse. Frequentava e coltivava i mafiosi, veri assassini, anche se più in modo semi-ostile, semi-affettuoso e fraterno che con la pietosa devozione feudale descritta ne “Il Padrino”. (Non sembra esserci verità nelle voci che la mafia abbia fatto pressione su Harry Cohn per far recitare Sinatra in “From Here To Eternity”, anche perché Cohn stesso era molto mafioso).
Peggio ancora, Sinatra picchiava la gente, o la faceva picchiare da altri per lui, spesso in vergognosi atti di bullismo – prendendosela con gli impiegati del casinò o con gli intrattenitori dipendenti e di minor successo. (Questo accadde a Shecky Greene, che emerge nella biografia come un uomo molto più interessante e volubile di quanto si potesse immaginare, e, stranamente, a Jackie Mason, che si fece sparare addosso, apparentemente per aver mancato di rispetto al Presidente). Kaplan offre persino velati e preoccupanti accenni al fatto che Sinatra potrebbe essere stato coinvolto in un vero e proprio omicidio. (Un uomo con cui ebbe un alterco fu ucciso in un misterioso incidente stradale poche settimane dopo). Questi casi erano sporadici e controbilanciati dai suoi numerosi atti di carità, alcuni impulsivi, altri sistematici – viaggi a beneficio di ospedali per bambini e simili.
Il difetto di carattere di Sinatra non è difficile da nominare. Viveva nella paura quotidiana dell’umiliazione, e in sua presenza (spesso immaginata) il suo carattere si rovesciava in un istante. Questo era seguito, di solito, dal rimorso, una volta che aveva smaltito la sbornia e smesso di vedere rosso. Ma, nel frattempo, furono fatti danni reali a persone reali: una volta al Beverly Hills Hotel lanciò un telefono contro un uomo d’affari, fratturandogli il cranio e quasi uccidendolo. L’altra causa della sua rabbia può essere stranamente tabù da raccontare. Sinatra era un ubriacone cattivo e meschino e, poiché era spesso ubriaco, era spesso cattivo e meschino. (Anche John Lennon era un ubriaco cattivo e meschino, e quando si lasciava andare abbastanza a lungo da mostrarlo l’autore di “Imagine” e “Julia” poteva fare cose altrettanto violente). Nonostante tutto quello che dovremmo aver imparato, facciamo ancora una ballata sull’alcol. Era Jack on the rocks, non crack da un sacchetto, e quindi in qualche modo pensiamo che non sia così male. L’altra triste verità che Kaplan illustra è che i demoni imperversano nei ricchi e famosi tanto quanto nei poveri e sconosciuti – e forse imperversano ancora di più, dato che, avendo sconfitto i soliti demoni del fallimento mondano che perseguitano il resto di noi, i famosi sono lasciati soli con quelli rimasti, inspiegabili, che sorridono loro malignamente dall’interno.
Kaplan non è un fan nel modo in cui lo era Guralnick, ma è un ammiratore incondizionato, e con maggior ragione, dato che ciò che c’è da ammirare non è una manciata di primi dischi, ma dieci anni di lavoro, dal 1954 al 1964, di sorprendente realizzazione – la migliore sessione ininterrotta di canto interpretativo mai offerta da un americano, diventando alla fine il miglior monumento che i grandi cantautori americani possiedano. Il Sinatra di Kaplan era un tipo violento, ma non aveva una “grande voce” come uno di quei tenori lirici con una voce così grande da aver spinto tutto il resto fuori dal cranio. Sinatra, dimostra, aveva un’intelligenza musicale sorprendente, di una sottigliezza e di un’anima ancora ineguagliate. Era un maestro dell’understatement e della narrazione così completa che poteva ancora incantare il pubblico dopo che la sua voce se ne era andata, ed era ancora più leggenda tra gli altri musicisti che tra i suoi fan. Kaplan non è semplicemente un idolatra. Vede come il genio sta in una rete fortunata, offrendo schizzi dei personaggi degli arrangiatori di Sinatra, che erano essenziali per l’arte di Sinatra come la produzione di George Martin lo era per i Beatles. Sono catturati più che come nomi: il saturnino Nelson Riddle, il genio dell’ultimo minuto Billy May e il vecchio Gordon Jenkins, per non parlare dei sostenitori dotati e dimenticati come Milt Bernhart, che suonò l’indelebile assolo di trombone nella versione trasformata di Riddle di “I’ve Got You Under My Skin” di Cole Porter.”
Questo non dovrebbe mettere da parte i pettegolezzi malevoli? Perché gli altri pettegolezzi hanno una certa importanza? Importa perché se l’arte e i livelli più bassi del giornalismo e della biografia convergono su un unico punto di scopo comune, è nell’essere sinceri sugli esseri umani come sono realmente e non come vorremmo che fossero. La storia è ciò che dobbiamo lottare per ricordare anche quando la leggenda è più piacevole. Sarebbe bello se Sinatra fosse stato un bravo ragazzo con alcune amicizie deplorevoli radicate nel Jersey simpatico – era molto peggio di così. Sarebbe bello se J.F.K. fosse stato un uomo di famiglia con un occhio a volte vagante – anche lì la verità è più famelica e complicata. Nulla di tutto ciò deve diminuire la nostra ammirazione o anche il nostro amore per loro. L’umanesimo è fatto di una fede negli esseri umani, così come sono in realtà, imperfetti e reali, che urlano minacce diaboliche ai gestori di casinò e poi cantano “Angel Eyes.”
E poi, una delle cose che si imparano sempre più certamente man mano che si invecchia è che tutta l’arte è fatta a immagine dell’artista. Spesso può essere articolato come un opposto, con tutti i punti bassi della vita spinti in avanti nell’arte, come con Sinatra. Ma è una specie di immagine. Non dovrebbe essere così; le persone di mentalità elevata dovrebbero separare la vita e l’arte, fidarsi del racconto e non di chi lo racconta, e così via. Ma se un artista astratto fa quadri solo di bianco, c’è un momento bianco, o un cavaliere, da qualche parte lì nel suo passato, che la disturba ancora. La natura dolorosamente bipolare di Sinatra è esattamente il modello della sua musica migliore, con dischi “swinganti” continuamente succeduti da dischi tristi, ancora e ancora, e anche se questa è ovviamente in parte una risposta alle oscillanti richieste commerciali di musica da ballo da una parte e di musica da sballo dall’altra, non è solo o principalmente questo. Nessun altro ci ha mai provato in modo così implacabile. Abbiamo “Songs for Swinging Lovers” e “Only the Lonely” perché Sinatra era un uomo disperatamente motivato con una profondità malinconica. Questo non compensa le fratture e i punti di sutura degli altri, neanche lontanamente. Ma gli album sono lì, e lui è lì, un uomo intero, fatto di parti rotte, come tutti.