Purezza del cuore è seguire una cosa sola

La copertina di FILOSOFO DEL CUORE: THE RESTLESS LIFE OF SØREN KIERKEGAARD

SØREN KIERKEGAARD WAS AN EARNEST, brilliant, difficult, vituperative, sensitive, sickly emo brat whose statue in the Valhalla of Sad Young Literary Men is surely the size of a Bamiyan Buddha. Era un cristiano la cui devozione era così idiosincratica da essere funzionalmente indistinta dall’eresia; che visse alla grande con i soldi di famiglia fino a quando i soldi finirono e poi morì così prontamente che si potrebbe quasi pensare che avesse pianificato il fotofinish; che cercò e fallì di salvare il cristianesimo da se stesso, ma riuscì (senza provarci davvero) a fondare “un nuovo stile filosofico, radicato nel dramma interiore dell’essere umano”. Questa citazione è di Clare Carlisle, dalla sua biografia Philosopher of the Heart: The Restless Life of Søren Kierkegaard; il “nuovo stile filosofico” era l’esistenzialismo.

Kierkegaard scrisse spesso d’amore, anche se il suo lavoro aveva le sue origini nel dolore. Nel 1834, quando compì ventuno anni, aveva perso sua madre e cinque dei suoi sei fratelli. Era alle prese con la questione di come conciliare il suo interesse per la letteratura romantica (e il concomitante rifiuto di Hegel e Cartesio) con la sua attrazione per la fede cristiana. Poco dopo, iniziò a tenere un diario: “Mentre stavo lì solo e abbandonato e la forza bruta del mare e la battaglia degli elementi mi ricordavano la mia nullità, e d’altra parte il volo sicuro degli uccelli mi ricordava le parole di Cristo: ‘Non un passero cadrà sulla terra senza la volontà del Padre vostro celeste’, ho sentito allo stesso tempo quanto sono grande e insignificante.”

In una voce del 1835 che Carlisle descrive come “non solo un’aspirazione personale, ma un manifesto filosofico”, ha scritto: “La cosa fondamentale è trovare una verità che sia vera per me”. Si può comprendere – e persino applaudire – la resistenza di Kierkegaard alle tendenze totalizzanti del razionalismo e della dialettica, pur riconoscendo quanto egli suoni narcisista e ingenuo. Ma diamo credito a ciò che è dovuto. Non è che Kierkegaard credesse che Hegel e Cartesio avessero completamente torto; semplicemente vedeva che c’era sempre un resto o un eccesso di cui i loro sistemi non potevano rendere conto. Per Kierkegaard, questo eccesso era la soggettività stessa. Credeva che ognuno di noi ha – ognuno di noi è – una coscienza percettiva unica, incaricata di osservare il mondo, di interpretare ciò che vede, e infine di agire in base a ciò che crede.

Ecco ancora Carlisle: “Il suo senso che il governo divino dirigesse la sua paternità era difficile da distinguere dal suo bisogno di scrivere per placare la sua profonda ansia.”

In margine alla mia cambusa: “LOL.”

Schizzi di Søren Kierkegaard, 1870 circa. Wilhelm Marstrand/Biblioteca Reale Danese
Schizzi di Søren Kierkegaard, 1870 circa. Wilhelm Marstrand/Royal Danish Library

“Una relazione d’amore è sempre un tema istruttivo su cosa significhi esistere”, scrive Kierkegaard nel suo Poscritto conclusivo non scientifico ai Frammenti filosofici (1846). E’ un’affermazione incredibile che proviene da un uomo che ha unilateralmente chiuso un fidanzamento con una donna che ha corteggiato per anni e poi ha proceduto ad ossessionare la decisione – sempre riaffermandola alla fine – per il resto della sua vita. Carlisle cita questa frase nella prima frase della prefazione alla sua biografia e apparentemente la prende per buona. Confesso che mi sono trovata a chiedermi come abbia potuto fare un’affermazione così grandiosa sulla forza di un’esperienza così limitata e fallimentare. Mi sono anche chiesto se o fino a che punto “intendesse” ciò che aveva scritto.

Vale la pena ricordare che la tesi di dottorato di Kierkegaard si intitolava Il concetto di ironia con continuo riferimento a Socrate, e che gran parte della sua opera fu scritta da una posizione di ironia socratica, attribuita a pseudonimi le cui opinioni non corrispondevano alle sue. Either/Or, che elettrizzò Copenhagen alla sua pubblicazione nel 1843, è diviso in due volumi di circa trecento pagine ciascuno. Il primo volume si presenta come “Le carte di A.” A è un esteta le cui opere comprendono raccolte di aforismi e un saggio su Mozart. Le carte contengono anche lo scandaloso Diario del Seduttore, attribuito non ad A ma a “Johannes il Seduttore”; l’implicazione è che A abbia letto il libro piuttosto che averlo scritto, e possiamo solo speculare su cosa ne pensasse. Un breve romanzo autobiografico nella tradizione dei Dolori del giovane Werther di Goethe, Il diario del seduttore racconta una versione romanzata del corteggiamento di Kierkegaard a Regine Olsen, includendo dettagli punitivi su come lui la manipolò, abusò della sua fiducia, e alla fine ruppe il loro fidanzamento. John Updike una volta ha descritto il romanzo come un “tentativo febbrilmente intellettuale di ricostruire un fallimento erotico come un successo pedagogico, una ferita mascherata da vanto”. (Quest’ultima parte mi sembra una descrizione appropriata dell’opera di Kierkegaard in generale). Il secondo volume di Ognuno dei due contiene un’altra serie di scritti, questi attribuiti a B. Egli scrive lettere di sfida al suo amico A; B confuta le pretese estetiche di A, lo rimprovera per i suoi comportamenti sbagliati, e cerca di insegnargli l’etica e la fede. L’intero libro è attribuito a un “Victor Eremita” (cioè, “eremita vittorioso”), che sostiene di aver scoperto queste serie di carte e di averle semplicemente organizzate per la pubblicazione. Either/Or, che è sottotitolato A Fragment of Life, confonde i confini tra filosofia e critica, così come tra fiction e non-fiction. Nella sua indecidibilità, nel suo eccesso e nel suo scivoloso gioco di soggettività, anticipa Moby-Dick e il modernismo, o Pessoa e Borges, tanto quanto Sartre e Camus o Paul Tillich e Karl Barth.

Se state cercando un’introduzione all’opera di KIERKEGAARD, fareste meglio a cercare altrove che Philosopher of the Heart. Fortunatamente, potete rimanere all’interno della bibliografia di Clare Carlisle, che è anche l’autrice di Kierkegaard: A Guide for the Perplexed e Kierkegaard’s Fear and Trembling. Nel caso ne abbiate bisogno per superare questa recensione del libro, eccovi un po’ di 101.

Fondamentalmente, Kierkegaard credeva che ci fossero tre sfere dell’esistenza. Prima c’era quella estetica, o superficiale; poi c’era quella etica, in cui i valori informano il comportamento; e infine c’era quella religiosa, in cui il salto della fede sostituisce tutte le altre considerazioni. Non si progredisce necessariamente da una sfera all’altra (sarebbe troppo hegeliano), ed è possibile occupare più sfere contemporaneamente, ma c’è un chiaro senso di gerarchia tra esse. Vivere una vita puramente estetica è per Kierkegaard una terribile tragedia. L’argomento al centro de La malattia della morte (1849) è che la disperazione è un dono nella misura in cui ci risveglia alla miseria dell’esistenza estetica, che a sua volta rende possibile considerare di avvicinarsi alle altre sfere.

Per la maggior parte, la sfera etica ed estetica è abbondante, ma la sfera religiosa è dove si trova la vera azione. Kierkegaard non pensava che molte persone fossero in grado di avvicinarsi alla sfera religiosa, tanto meno di entrarvi, e pensava che fosse meglio che gli impreparati non facessero alcun tentativo. La sfera religiosa è dove si arriva a comprendere il cristianesimo come pura “interiorità”, si passa del tempo di qualità “da soli con il Modello” (cioè nella contemplazione dell’esempio di Cristo), e ci si impegna nella “sospensione teleologica dell’etica”, il che significa che – come nel caso della volontà di Abramo di sacrificare Isacco – quando Dio ti dice di fare qualcosa, tu la fai, anche se pensi che sia sbagliato e, cosa fondamentale, anche se ciò che stai facendo viola le leggi di Dio stesso come le intendi tu. Abramo, nella visione di Kierkegaard, è un uomo di fede non perché confida che Dio risparmierà Isacco, ma piuttosto perché è disposto a commettere l’omicidio e poi a essere condannato per questo, in modo che la volontà di Dio possa essere fatta mentre la lettera della sua legge rimane invariata.

Kierkegaard capisce quanto questo suoni ridicolo. Sostiene che i principi centrali del cristianesimo – nascita verginale, resurrezione, ecc. – sono assurdi di proposito, “pietre d’inciampo” poste deliberatamente per impedire a tutti, tranne ai più impegnati, di fare il salto della fede. Se si insiste sul fatto che la fede sostituisce sia la ragione che l’etica, la fede diventa l’ultimo atto di soggettività. Il salto della fede è quindi l’azione più conseguente (e forse la meno spiegabile) che una persona possa compiere. La rottura di Kierkegaard con Regine fu una versione del salto, perché sapeva che gli agi e le responsabilità di un matrimonio borghese gli avrebbero impedito di perseguire ciò che arrivò a chiamare la sua “autorialità”. Il secondo salto di fede fu la scrittura e la pubblicazione delle opere stesse, che portò a molto ridicolo pubblico e infine alla ribellione aperta contro la Chiesa luterana danese.

Si dovrebbe sempre essere cauti quando si cavilla con il genio, ma mi sembra che la soggettività stessa sia, oltre un certo punto, immorale. Si può concedere a Kierkegaard la premessa delle sue sfere, ma rifiutare la sua classificazione, o la spinta a classificarle del tutto. Perché non scegliere di vederle come disuguali e interdipendenti? Essere salvati dalla vita non esaminata è un miracolo, certo, ma perseguire l’auto-esame fino al punto in cui si perde di vista il valore – o la realtà – delle vite degli altri mi sembra una perdita che supera qualsiasi cosa si sia guadagnato.

PHILOSOPHER OF THE HEART è un romanzo nel suo approccio. Gran parte di esso è narrato al presente, ambientato in momenti cruciali della vita di Kierkegaard, che tendono ad essere appena prima o dopo le sue principali pubblicazioni. La prima parte, “Maggio 1843: Viaggio di ritorno”, lo trova in viaggio in treno, diligenza e nave a vapore da Berlino a Copenhagen. Either/Or è già uscito da qualche mese, e prima della fine dell’anno pubblicherà Fear and Trembling e Repetition, oltre a tre puntate dei Upbuilding Discourses. Carlisle è capace di tratteggiare un quadro vivido: “Mentre il sole tramonta sul Baltico a tarda sera, il vasto cielo diventa rosa e blu e oro. Kierkegaard sa che innumerevoli stelle si nascondono in questa ultima danza della luce del giorno, in attesa che le tenebre cadano. . . . Dovrebbe cercare di riposare un po’.”

Se la cosa principale che vi colpisce della citazione di cui sopra è che Carlisle ha la tendenza a fare un uso libero dello stile indiretto, attribuendo al suo soggetto pensieri e osservazioni che sono quasi certamente di sua invenzione, allora questo potrebbe non essere il libro per voi. Philosopher of the Heart è inteso come “una biografia kierkegaardiana di Kierkegaard”, e Carlisle è in gran parte riuscito in questi termini peculiari, anche se un tale approccio è necessariamente cieco nella sua messa a fuoco e destinato ad escludere i lettori che non sono già esperti dell’opera di Kierkegaard. Dubito che Philosopher of the Heart conquisterà nuovi convertiti, ma quelli già affascinati da Kierkegaard probabilmente riaccenderanno la loro passione. Sono stato spinto a rivisitare molte delle mie vecchie idee sul suo lavoro, così come le opere stesse, e in alcuni casi sono venuto via con una comprensione rivista e più sofisticata del suo pensiero. Ho imparato alcune cose sulla sua vita che non sapevo prima, e mi sono ricordata a volte di altre biografie letterarie di parte che ho apprezzato, come Byron in Love di Edna O’Brien e Reading Rilke di William Gass.

Ma senza offesa per Carlisle, quello che questi altri libri hanno in comune (e che manca a Philosopher of the Heart) sono autori che hanno lo stesso potere di attrazione dei loro soggetti. Se vuoi conoscere la storia della vita di Rilke, leggi la biografia di Wolfgang Leppmann; se vuoi sapere cosa pensa William Gass dei meriti relativi di una dozzina di traduzioni delle Elegie Duinesi – o se sei solo un fan di Gass – prendi Reading Rilke. Inoltre, Philosopher of the Heart manca della consapevolezza di sé che questi altri libri possiedono. Edna O’Brien sa che c’è qualcosa di un po’ sciocco nel dedicare un intero libro a un pomposo cazzone come Byron, ma sa anche che questo fa parte del divertimento. Carlisle, d’altra parte, è un discepolo doveroso che mantiene sempre la faccia seria. Nella sua prefazione, ammette che “pur vivendo in una vicinanza scomoda a Kierkegaard, mi sono trovata a volte a non sopportarlo – una sensazione dolorosa, simile al dolore di trovare difetti con una persona cara”. Qui è facile simpatizzare con lei: Chi di noi non ha un amico problematico? Ma il suo approccio “come biografa kierkegaardiana” è “resistere all’impulso di imporre o invitare questi giudizi”. Per una lettrice moderna (e, probabilmente, per le donne di tutte le epoche), il comportamento di Kierkegaard nei confronti di Regine Olsen – prima rompere il fidanzamento, poi scriverne, poi continuare a pretendere la sua attenzione e dare giudizi sulla sua vita – verrà registrato come ipocrita, odioso, inquietante e fin troppo familiare. Sarebbe stato bello vedere questo più pienamente riconosciuto, o affrontato in termini diversi da quelli di Kierkegaard, che sono tanto irrimediabilmente contorti quanto egoistici. Una biografia veramente kierkegaardiana avrebbe trovato il modo di dare voce a Regine. Inoltre, avrebbe impiegato più degli approcci formali di Kierkegaard: autori pseudonimi che possiedono psicologie plausibili in aperto conflitto tra loro; saggi e finzioni presentati come testi trovati; strati di diegesi e vortici di ironia socratica. Forse una biografia veramente kierkegaardiana di Kierkegaard potrebbe essere solo un romanzo.

Il che mi ricorda che ho quasi dimenticato di citare la fonte del titolo sciocco di questo ammirevole libro. Si tratta di un’osservazione casuale fatta da Fredrika Bremer, una scrittrice svedese di società che visitò Copenaghen nel 1849 per fare un reportage sulla cultura danese. Kierkegaard rifiutò di incontrarla, ma lei sentì molto parlare di lui, in particolare che la sua opera era popolare tra le donne. Questo era così, lei teorizzò, perché lui filosofava dal cuore, e le donne sono sempre entusiaste di trovare un uomo che è in contatto con i suoi sentimenti.

Justin Taylor è l’autore del libro di memorie Running with the Ghost, che sarà pubblicato da Random House a luglio.

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